Asia Argento: Lady Lazarus

Scritto il 03/05/2021
da Carolina Genna


Io lo faccio in modo magistrale | lo faccio che fa un effetto da impazzire | lo faccio che fa un effetto vero

È uscita nelle librerie la tua autobiografia, Anatomia di un cuore selvaggio, scritta per Piemme. Cosa significa avere un cuore selvaggio?

Il titolo è una citazione sia del film di David Lynch, sia di Clarice Lispector, che a sua volta riprendeva James Joyce, citato, infatti, alla fine del libro. Il cuore selvaggio è un cuore che si è dovuto fare forte davanti alle tante intemperie della vita e che, ciò nonostante, non rinuncia a essere coraggioso e ad affrontare il mondo senza protezioni. Si è inselvatichito dopo decenni di peripezie.

 

Asia Argento è un nome che racchiude al suo interno tantissime anime diverse: sei stata un’attrice, una cantante, una sceneggiatrice, una scrittrice e anche una regista. Come nutri l’arte e come ha nutrito, l’arte, te?

Nutrirsi d’arte significa coltivare la propria curiosità, quell’aspetto un po’ infantile che abbiamo tutti, ma che alcuni, non coltivandolo, finiscono per atrofizzare. In questo senso io sono rimasta molto bambina: mi sorprendo davanti alla bellezza del mondo. In realtà sono una persona che guarda pochi film, ma ascolta tantissima musica, che poi sono anche i film migliori che io abbia mai visto. Quando ascolto la musica, io vedo delle immagini. E anche i libri sono cinema: quando leggo un libro, un romanzo, io mi immagino i personaggi, vedo le scenografie, i luoghi, e la lettura mi trasporta in un luogo lontano.
Sono una donna attaccata agli schemi della vita e sono anche molto organizzata, però ho la fortuna di coltivare le mie curiosità artistiche e, così, riesco a elevarmi. 
 

Il cinema è stato il primo percorso artistico di una vita immolata alla libera espressione del sé. Cosa ti ha affascinato della settima arte?

Beh, quando ho iniziato ero una bambina, ma ero già una cinefila. Guardavo i film in maniera ossessiva, e a quei tempi c’erano le betamax e le videocassette. Poi a nove anni ho iniziato a lavorare con Sergio Citti semplicemente perché mi aveva scelta. Insomma, fare l’attrice non era il mio sogno di bambina, io volevo fare la scrittrice. Però, quando mi sono ritrovata sul set e tutti erano così attenti a quello che dicevo e a quello che facevo, mi sono resa conto che era un buon modo per essere al centro dell’attenzione. Avevo bisogno di un’attenzione, forse, che non pensavo di ricevere, almeno non quanto avrei desiderato da bambina. Diciamo che è stato del tutto casuale, ma mi sono ritrovata a fare qualcosa che mi piaceva e che mi riusciva, e ho continuato perché hanno iniziato a chiamarmi sempre di più. Insomma, è andata così!

 

Per un breve periodo hai deciso di accantonare la professione attoriale per cimentarti in quella registica. Cosa ti offre la regia in più rispetto alla recitazione?

Premettendo che in questo momento sto girando un film in qualità di attrice, direi che, dopo tanti anni di mestiere, e avendo lavorato con dei grandi registi, avevo e ho raggiunto quelle che potevano essere le mie ambizioni da ragazza. Poi ho avuto due figli e sono diventati la mia priorità, relegando la mia carriera in una posizione secondaria. Quello dell’attrice è un mestiere che ti può portare lontano da casa per dei mesi, e, crescendo due bambini da sola, non potevo permettermelo. Ma, per esempio, ora che sono più grandi ho ricominciato a recitare e sto facendo un film francese in Svizzera, e ci starò per sei settimane. Ora che i miei bambini sono più grandi, posso riappropriarmi del lusso di amare questo mestiere che faccio da quando era bambina.
La regia è entrata nella mia vita quando avevo ventitré anni, col mio primo lungometraggio Scarlet Diva, dopo aver lavorato col regista che è stato il mio grande maestro e il mio mentore, Abel Ferrara. Lui mi ha molto liberata: sui suoi film si improvvisava tantissimo, si facevano grandi studi sui personaggi, e la libertà di improvvisare è una cosa che capita di rado al cinema. Io ne ho fatto tesoro e lui mi ha incoraggiata, e anche mio padre. “Devi fare la regista!”, mi dicevano. Perché ho tante storie in mente.
Sai, recitare è un mestiere esecutivo: si dev’essere una pagina bianca. È come mangiare il dolce: un dolce molto buono, pieno di nutrienti, ti può riempire. Ma fare la regia è un pasto completo. La regia ha a che fare con tutte le arti: con la fotografia, coi costumi, con la musica, con la recitazione.

 

Quali sono i progetti cinematografici che, al di là delle premiazioni e dei riconoscimenti, più porti nel cuore?

È strano a dirsi, ma i film che ho amato di più fare, proprio per il loro processo creativo, sono stati New Rose Hotel di Abel Ferrara, in cui avevo solo ventun anni, Compagne di viaggio con Michel Piccoli e di Peter Del Monte, in cui ne avevo solo diciannove, e poi Transylvania di Tony Gatlif e La Sindrome di Stendhal di mio padre. E non voglio dire che gli altri siano da meno, che non abbia dato il massimo o che non siano stati degli incontri importanti che mi hanno arricchita, ma questi sono i film che mi hanno dato più gioia e che mi hanno insegnato di più. Sono state delle grandi collaborazioni, c’era una grande unione e affinità elettiva coi registi e mi sono sentita arricchita al punto che, la mattina, al momento di andare a lavorare, saltavo giù dal letto dalla gioia.
Ora che mi sono presa una lunga pausa dal mestiere attoriale, sono tornata sul set con una gratitudine e una concentrazione diversa, forse anche perché sto facendo un film che mi piace molto, con un regista talentuoso. Quindi forse avevo bisogno di prendermi una pausa: dopo tantissimi film, era diventata una routine. E noi siamo davvero fortunati a fare questo mestiere e non dovrebbe mai essere solamente una routine. È stata una giusta pausa per potermi innamorare di nuovo.
 

Body art: una vera e propria forma d’arte e un veicolo potentissimo per la libertà d’espressione personale. I tatuaggi possono essere cura, celebrazione, nascondiglio. Cosa sono e sono stati per te?

Il tatuaggio è un arte. Io desideravo tatuarmi sin da bambina e ricordo che, verso i nove anni, ho detto a mia madre: ”Io mi tatuerò!”, e lei:” Per carità!”. Mi feci il primo tatuaggio a quattordici anni, il famoso angelo a diciassette. In un tempo, poi, in cui gli attori non avevano tatuaggi perché, per l’appunto, devono essere delle pagine bianche su cui un regista può scrivere di tutto. I tatuati venivano visti come una sorta di galeotto, di carcerato, non era ben visti. Poi, forse sono stata proprio io a sdoganare, qui in Italia, il tatuaggio come una forma d’arte e di espressione.
Ho iniziato a tatuarmi pesantemente nel 2013, quando feci il mio film Incompresa, e dopo aver fatto una serie di film che non mi erano piaciuti come attrice, tant’è che mi ero detta: “Io non voglio più recitare!”. E in quel periodo ho conosciuto un grande maestro, il tatuatore Marco Manzo, e mi sono fatta fare un piccolo tatuaggio…e poi, non lo so, ci siamo fatti prendere la mano! In realtà, ho iniziato a 38 anni a farmi i tatuaggi più grossi che ho. E, per me, sono una sorta di protezione, è così che li vedo. L’angelo, che non ha nessuna connotazione sessuale, ce l’ho sulla pancia perché è il mio chackra più fragile e ha bisogno di protezione. Poi, il tatuaggio sulla schiena è anche uno scudo, un simbolo spirituale. E lo sono soprattutto i tatuaggi che fa Marco Manzo: ornamentali, con figure sacre e geometriche. E anche i tatuaggi che ho fatto in seguito con la tecnica giapponese tebori, soprattutto il serpente. Ho deciso di tatuarmelo dopo un periodo burrascoso, con la morte del mio compagno e  dopo avere perso ingiustamente il lavoro di giudice di X Factor, e ho deciso di tatuarmi il serpente perché è il simbolo del cambiamento, con la pelle diventa altro, e un po’ perché mi sembrava di essere circondata da serpenti. Ho pensato che se me ne fossi fatta uno amico, mi avrebbe protetto da tutti i mali e da tutti coloro che in quel periodo mi attaccavano.

 

I tuoi tatuaggi cos’altro ci possono raccontare di te?

I tatuaggi che ho addosso simboleggiano delle cose che fanno parte del mio intimo e del mio giardino privato. E che non vengo a raccontare a voi!

 

Attraverso il tuo coraggio, moltissime donne dell’industria cinematografica hanno trovato una voce. Pensi che il movimento Me Too avrebbe mai visto la luce se non ti fossi fatta avanti?

Ma sì, sicuramente sì. Ci sono talmente tante donne che hanno denunciato, non solo Weinstein, ma anche altri. Io ho semplicemente dato una piccola spinta, ma qualsiasi altra donna avrebbe potuto farlo. È una cosa che è servita, per quanto mi riguarda, a mandare quella persona in carcere, dove, con tutta probabilità, passerà il resto della sua vita, visto che rischia altri 104 anni col processo che inizierà a Los Angeles. È servito a mandare in carcere una persona pericolosa, un predatore seriale. Io non mi sento una paladina e non mi sento di aver iniziato niente. Mi sento di aver fatto la cosa giusta, dettata dalla mia coscienza, e l’ho fatto insieme ad altre donne.

 

Com’è cambiata la situazione a livello nazionale o internazionale a seguito delle tue denunce e delle tue rivelazioni sul sistema cinema e sui suoi ricatti?

Da un certo punto di vista, il movimento è andato avanti e adesso, sicuramente, gli uomini avranno più paura di comportarsi in questo modo e di abusare del loro potere. Però, soprattutto in America, è iniziato una sorta di nuovo puritanesimo nel quale non mi riconosco. La gente sembra quasi essere più attenta alla vita sessuale delle persone famose, e questo non c’entra niente con l’abuso di potere. Basta fare un post e vengono prese di mira anche le persone innocenti, magari i fidanzati deludenti, che però non sono predatori. Si chiama cancel culture: basta un post su Instagram e fanno sparire gli artisti. E io non sono d’accordo. Improvvisamente, ciò che era stato profetizzato, ovvero che si sarebbe confuso il limite, che per me non è affatto labile, fra seduzione e molestia, sta succedendo. La situazione è davvero molto confusa, ma, come per tutte le cose nuove, spero si arrivi a una vera illuminazione e che si proceda verso l’avanzamento della donna nella società.
 

 A oggi, quali pensi siano le battaglie che, da donne, dobbiamo ancora combattere?

Tutto! Tutte le battaglie che abbiamo combattuto cinquant’anni fa, non è cambiato molto. La posizione della donna, il gender gap, i posti di lavoro, i salari, tutto! La donna, oggi, avendo conquistato la sua emancipazione, si ritrova a dover essere sia madre, sia colei che deve portare il pane in famiglia. Non c’è eguaglianza. E non so neanche quando ci si arriverà. Il patriarcato e la misoginia sono stati talmente interiorizzati negli ultimi due millenni, che sembra difficile scrollarseli di dosso. Sarà un lavoro faticoso, per mia figlia e, probabilmente, anche per la figlia di mia figlia.

 

Anche in Anatomia di un cuore selvaggio non hai avuto paura di raccontarti con sincerità. Com’è stato mettere nero su bianco la tua vita?

È stato faticosissimo. Non avevo idea di quanto sarebbe stato necessario per la mia rivoluzione personale e per cambiare il mio karma. Però, dopo il primo mese e poi quando è uscito, mi sono accorta che ero molto cambiata, anche nei miei comportamenti. I miei difetti di carattere si sono attenuati. Forse perché tirare fuori da dentro le proprie sofferenze, i propri sbagli, i rancori le paure – e proprio tirarle fuori! -, è un modo per togliersele, per liberarsene. E poi, con la pubblicazione del libro, ho sentito come se non appartenessero più a me. E ho pensato a un valore più alto: questa storia, per quanto sia strampalata, è la mia storia, però altre persone potevano riconoscercisi e sentirsi meno sole. Potevo raccontare ai diversi che ci sono altri diversi intorno a loro. A me ha aiutato, e da quello che mi hanno scritto tante persone, donne e uomini, i lettori si sono riconosciuti e penso di aver aiutato anche loro. Questo è quanto di meglio potesse accadere, e non lo immaginavo perché, inizialmente, l’ho scritto esclusivamente per me stessa, per poter stare meglio.

 

La scrittura è un mezzo per riflettere, elaborare, perdonare, concludere. Da cosa è nata la voglia di indagare la tua vita e la tua infanzia?

Ho iniziato a scrivere con grande reticenza. L’ho fatto perché ho ascoltato il consiglio della mia terapeuta, che me lo diceva da anni. E, da anni, io avevo un po’ il blocco della scrittrice, e non sapevo nemmeno più se ancora avevo una mia voce. Però l’ho fatto, e l’ho fatto nel modo tipico delle vergini come me: in modo sistematico, ogni giorno, a quell’ora, in quel luogo, mi mettevo a scrivere e scrivevo un tot. Sapevo più o meno gli argomenti che volevo trattare, anche se poi la mente mi portava anche altrove. Ho raccontato delle cose che non avrei voluto raccontare e che non pensavo che avrei raccontato.

 

Durante l’adolescenza, chi erano le tue eroine? E oggi?

Io guardavo sempre a Madonna. Quando ero ragazzina, Madonna era un mito, e lo è tutt’ora. Lei ha fatto tantissimo, più di quanto si possa immaginare, per poter avanzare la posizione della donna nella società, contro il razzismo, contro il sessismo, per il potere alle donne. Il suo messaggio è sempre stato forte. E poi è un’artista che è sempre rimasta curiosa, è evoluta, cambiata. È un grandissimo modello, per me, e mi ci sono sempre ispirata. E poi ci sono le scrittrice che amo sin da quando ero piccola, come Marina Cvetaeva, Sylvia Plath. Sono storie piuttosto infelici, le loro. Ma le loro parole, le loro poesie sono dei ritratti nei quali mi riconosco ancora.

 

Cosa vorresti insegnare e dire alle giovani donne del mondo?

Io non me la sento di insegnare niente. Posso solo dire quello che è successo a me, e cioè che so che la vita ti fa cadere cento volte e bisogna sapersi rialzare cento e una. E, ogni volta che mi sono rialzata, sono sempre stata più forte. Serve resilienza. La vita ci vorrebbe ammutolite, servizievoli e succubi e invece, attraverso la libertà di espressione, non siamo tutte uguali. È trasversale, e vale per tutte le razze e per tutte le età: dobbiamo affermare la nostra identità. E non dobbiamo permettere alle critiche o alle persone che vogliono tirarci giù, per le loro insicurezze, di farcela. Dobbiamo ricordarci sempre chi siamo e qual è la nostra vera essenza. E dobbiamo farlo ricordandoci di noi da bambine, avendo ben in mente questo puer eterno, come diceva Hillman. Se avessimo modo di vedere noi stesse in tutte le fasi della vita (noi bambine, noi ragazze, noi donne, noi vecchie), saremmo un po’ più serene e accetteremmo un po’ di più gli ostacoli che la vita ci mette davanti.