Tomaso Trussardi: quando il futuro è a portata di mano

Scritto il 07/07/2022
da Carolina Sardelli


Oltre 110 anni di storia, cosa vuol dire prendersi sulle spalle l’azienda di famiglia? 

Ho imparato per osmosi cosa significa essere imprenditori. Ognuno cerca di portare del valore aggiunto. La mia presa in carico delle attività aziendali è stata una naturale consecutio, una volontà, nonché un atto dovuto, legato alla legacy della mia famiglia. Questo passaggio di consegne è avvenuto in situazioni tragiche. Quando avevo 15 anni è scomparso mio papà. Quando ne avevo 19 mio fratello.

 

Un avvicendamento accaduto in un clima di emotiva complessità.

Ho deciso di farmi carico dell’azienda e di iniziare a entrarci dopo aver concluso studi di economia e finanzia con un master alla Bocconi di Milano in Corporate, Finance and Banking. Era un master serale, contemporaneamente lavoravo nelle fabbriche che avevamo a Modena, a Incisa Val d’Arno, in Toscana, e ad Almè, in provincia di Bergamo, che era la fabbrica storica. Gestivo tutta la parte di ciclo attivo: quindi protoprogettazione, prototipazione e il ciclo acquisto, produzione e vendita. Ho imparato da subito la specificità del nostro business. Quando ancora la parte industriale contava, e molto. Perché il know how faceva ancora la differenza. Oggi è tutto molto diverso. 

 

Ovvero?

La moda è cresciuta in un modo esponenziale. Ci sono tutta una serie di indotti legati alla filiera produttiva che ti consentono di avere un buonissimo prodotto, una buonissima qualità pur non avendo internamente il know how. Oggi, quando parliamo di aziende della moda, parliamo di marketing, comunicazione e design. Adesso sono questi i tre vettori che fanno la vera differenza.

Tornando alla mia storia, una volta trovatomi alla guida dell’azienda, capii che una delle grandi intuizioni di mio padre fu quella di comprendere che Trussardi non doveva solo essere ad appannaggio di una sola categoria, o di una serie di categorie di prodotto, in questo caso gli accessori e l’abbigliamento, ma doveva essere un brand di lifestyle, a cappello di tante realtà diverse. Da quel momento in poi Trussardi non è più stato solo un brand di moda.

 

Cosa intende?

Le faccio un esempio, 15 anni fa, nel nostro building in piazza della Scala a Milano creammo, per la prima volta in assoluto, il connubio food&fashion aprendo il Caffè e Ristorante Trussardi alla Scala. Potevamo e dovevamo comunicare delle cose diverse dalla moda. E iniziammo a farlo grazie a uno chef molto promettente che si chiamava Andrea Berton, insieme a noi prese due stelle Michelin e adesso è uno degli chef più capaci e blasonati del panorama italiano.  

 

Abbiamo guardato alla storia di Trussardi, ma lei come vede il futuro della moda? Su cosa si deve investire oggi?

Le economie di scala della moda sono cambiate. Io, nel mio excursus imprenditoriale, ho prima acquistato dal resto della mia famiglia le quote di maggioranza dell’azienda, ho fatto l’Amministratore Delegato per dieci anni. Poi ho fatto un’operazione con un fondo d’investimenti italiano al quale abbiamo ceduto la maggioranza, io oggi ho il 30% dell’azienda. Collaboro con loro per quanto riguarda la parte strategica, supportando il loro management. Tornando alla domanda, oggi le aziende per poter avere un successo internazionale devono dotarsi di importanti risorse finanziarie o far parte di grossi conglomerati della moda, come i grandi fondi francesi o qualche realtà più piccola italiana, ma sempre di dimensioni significative.

Se si guarda alle discrepanze tra il passato e il presente della moda si identificano due grandi differenze: la prima, un tempo gli stilisti creavano i brand e sotto facevano le aziende, adesso sono le aziende che creano gli stilisti, cambia il paradigma; la seconda, prima si partiva dal brand e dal prodotto e poi si cercava di creare un’attività commerciale, oggi si parte dalla community alla quale si vuol parlare e da quella si va a costruire il brand e dunque il prodotto. Ormai non si può più prescindere dalla comunità di appartenenza e da quanta voglia e capacità si ha di allargarla. 

C’è poi un altro grande paradosso, che è la vera difficoltà di fare moda oggi. Nel passato cavalcavi un’idea, una stampa, un prodotto per 20 anni, dovevi essere bravo a crearlo e imporlo, ma poi restava. Oggi, invece, devi reinventarti ciclicamente. Ogni due, tre stagioni devi mutare, rimanendo fedele a te stesso. 

 

Lei ha parlato di community, oggi si comunica la moda anche attraverso i social network?

Nel passato la visibilità di un brand passava dai grandi giornali di settore: Vogue, Gq, Vanity Fair. Oggi si è spostato tutto sui canali digitali, che ti danno un contatto diretto con il cliente. Le influencer non sono altro che le top model di 30 anni fa. La proliferazione dei brand, e anche la loro promiscuità, ha reso fondamentale avere un canale immediato con i clienti finali e i social sono lo strumento migliore per farlo.  Ci sono talmente tante community che ormai una nicchia può valere anche un miliardo di fatturato. Si deve capire a chi si vuole parlare.

 

Trussardi a chi vuole parlare?

Come avete visto dalle ultime sfilate e dai nuovi direttori creativi, Trussardi ha fatto un turn around a livello di immagine grazie al nuovo Amministratore Delegato Sebastian Suhl e ai nuovi creativi, concentrandosi maggiormente sulla parte più contemporanea, futuristica e tecnologica, rispetto a quello che è il suo heritage. Trussardi è sempre stato un marchio classico contemporaneo e oggi vuole essere un marchio che parla di più ai giovani, alle giovani generazioni. È vero che siamo sempre stati un marchio classico, ma da sempre siamo stati proiettati verso il futuro.

 

Lei non ha solo la passione per la moda, ma anche per i motori. 

I motori sono sempre stati una parte integrante sia della mia famiglia che dell’azienda. Noi siamo stati i primi a fare le divise e gli interni di Alitalia. Abbiamo collaborato con Alfa Romeo, Mercedes, Vespa. Siamo stati i primi a introdurre il concetto di moda nei veicoli. Ci siamo inventati la bicicletta targata Trussardi, realizzando un modello di trasporto urbano fashion che prima non c’era. Il connubio è sempre esistito. 

Io ho questo grande amore l’ho ereditato. Quando avevo 20 anni, Vittorio Feltri, amico di famiglia, sentendomi parlare di una mia moto mi disse “Hai passione, parli bene. Perché non scrivi un pezzo?”. 

Lo scrissi, gli piacque, lo pubblicò. Dopo due anni gestivo la rubrica motori di Libero.

Poi mi sono dedicato all’azienda. Adesso, dopo aver fatto l’operazione con il fondo di investimenti per Trussardi, ho creato questo club che si chiama Fast Cars and Slow Food: realizziamo eventi che collegano le automobili veloci con il cibo lento italiano. Abbiamo iniziato in piccolo, oggi dopo un anno e mezzo e un lockdown, abbiamo realizzato circa 25 eventi. Quest’anno ne abbiamo in programma una trentina. Coinvolgiamo spesso anche la Motor Valley, il consorzio delle sei case costruttrici dell’Emilia Romagna, di cui io sono Ambassador da due anni. Abbiamo creato qualcosa che prima non esisteva. Diamo la possibilità a chi è un appassionato vero di poter usare la sua auto in contesti particolari, con una cura al dettaglio pazzesca, a partire dall’hospitality e dal food. 

 

E il design cos’è per lei?

Il design oggi esprime dei concetti, degli spaccati di vita, di cultura. Un po’ come diceva Hegel. Ma anche la moda dev’essere così. La moda ormai non fa più capi, ma esprime dei concetti che sono immersi nella contemporaneità.

 

Motori, fashion, cibo. Lei ama l’italianità. In che modo oggi si incentiva il Made in Italy? Spesso si pensa che un po’ si promuova da sola.

Se il Made in Italy si promuovesse da solo, non saremmo in questa situazione. È un falso mito pensare che non ci sia bisogno di alimentarlo. E, comunque, per me il Made in Italy è un concetto superato. La produzione per molte, moltissime aziende non è più italiana. Oggi si deve parlare di Italian Lifestyle, un concetto che racchiude il food, il fashion, le auto, il design. Si deve puntare a far conoscere lo stile di vita italiano. 

 

Su questo punto, cosa fare?

Dovremmo lavorare sulla ricettività. Abbiamo un’Italia con strutture degli anni ’70 e ’80, dovremmo incentivare alla loro ristrutturazione, per renderle competitive. Hanno prezzi alti, ma sono datate. Seconda cosa: le infrastrutture, aeroporti, stazioni, autostrade. E infine il governo dovrebbe farsi promotore attivo del nostro lifestyle italiano. Come fanno gli Emirati Arabi. Loro non hanno niente ma portano lì chiunque, da qualunque parte del mondo.

Noi abbiamo la Motor Valley che consorzia: Ferrari, Maserati, Pagani, Lamborghini, Ducati e Dallara, che sono i brand di auto più importanti al mondo, ma dobbiamo portare le persone a scoprire questa realtà. Ci stiamo lavorando. Così come per la Food Valley. L’Emilia Romagna è una delle regioni in cui si mangia meglio in assoluto e in più ha dato i natali a Massimo Bottura, chef numero uno al mondo. Abbiamo delle perle incredibili e sistematicamente non riusciamo a valorizzarle. Ci dà quasi fastidio. 

 

Lei continua a ribadire l’importanza dell’Italian Lifestyle, ma cosa è il “modo di vivere italiano”?

Noi siamo molto più aristotelici di tanti altri. Ciò che è bello, è buono. Gli anglosassoni, gli orientali non hanno questo modo di pensare. L’italiano è elegante per definizione, è allegro per definizione. E poi c’è anche un fattore geomorfologico: viviamo nel mar mediterraneo in un microclima perfetto, in una nazione vulcanica, e tutto questo ci permette di dare sapore, colore, texture unici a tutto ciò che nasce dalla nostra terra. Lo stile di vita italiano è un modo di vivere, è qualcosa di irreplicabile, in nessuna altra parte del mondo.  

 

Lei ama molto l’Italia, poteva vivere ovunque ma non si è mai staccato dalla sua Bergamo e dalla sua Lombardia.

Io sono un bergamasco nel midollo: quando vedo il casello e la torre di Bergamo e dall’autostrada vedo città alta, inizio a sentirmi a casa. Però mi sento anche milanese di adozione. Resta la città che ha regalato il mondo a Trussardi.