La carriera, verticale e rapidissima di Alfonso Signorini parte da una cittadina piccolo borghese dell’hinterland di Milano, per approdare a passi forzati ai giornali, poi alla tv e negli ultimi anni pure a teatro. In questa intervista, ci ha portato a spasso per il suo mondo, nel quale oltre a tanta ambizione e moltissimo lavoro, ci si imbatte in storie incredibili, personaggi che hanno rappresentato momenti fondamentali del nostro Paese. E si, c’è spazio anche per un po’ di gossip.
Da dove arriva Alfonso Signorini?
Vengo dalla periferia nord milanese, da Cormano per l’esattezza. Vedevo Milano lontana, come una roccaforte da conquistare. La mia era una famiglia semplice: mio padre impiegato, mamma casalinga. Ho una sorella che ha 7 anni più di me e che si è sposata giovanissima. Così io, per contrappasso, mi sono allontanato dalla mia famiglia il più tardi possibile: a trent’anni. Ho avuto un’infanzia molto solitaria, isolata.
Come mai?
Un po’ perché mi isolavo da solo, per carattere. Perché sono un introspettivo. Ho avuto le mie sofferenze, ma non il tempo di piangermi addosso perché ho cercato subito il riscatto che per me in quegli anni voleva dire eccellere negli studi. I libri erano il mio rifugio.
Le aspettative in famiglia quali erano?
Erano quelle degli italiani piccolo borghesi dell’epoca: la banca per il figlio maschio, la segretaria d’azienda per la figlia femmina. Ai miei è andata bene perché ci sono andato di mio all’università, era inevitabile.
E come sei finito a fare il giornalista?
Il fuoco sacro ce l’ho sempre avuto. Ricordo che da bambino ho vinto il concorso alle elementari con un tema che fu pubblicato sul giornalino della scuola. Fatto che chiaramente in quel momento mi fece sentire tipo Indro Montanelli. Il tema era sull’assassino Calabresi
Precocissimo…
La scrittura era un bene mobile in cui mi rifugiato. Ma non avrei immaginato all’epoca di diventare giornalista. La mia aspirazione all’inizio era quella dell’insegnamento universitario. Cosa che poi effettivamente feci, diventando anche cultore della materia.
Ma quindi come diventi giornalista?
Il giornalismo è nato per caso: perché tra i miei allievi avevo il figlio del direttore dell’allora “Sorrisi e canzoni" al quale mi proposi spudoratamente come collaboratore. Amando la musica, gli proposi una rubrica di recensione discografica per i dischi di musica classica. Così feci il primo passo in una redazione importante, anche se in redazione non ci andavo mai. I pezzi glieli mandavo via fax.
Poi cosa successe?
Il mitico direttore Gigi Vesigna fondò un settimanale, “Noi, il settimanale degli italiani” per Silvio Berlusconi editore (nessuno potava immaginare allora la futura acquisizione di Mondadori) e mi volle con sé. Mi licenziai e feci il grande salto.
Quando ha capito che era davvero arrivato un certo successo?
Prima che qualcuno mi fermasse per strada ci è voluto l’intervento della Tv; quella fase è iniziata solo dopo che ho lavorato con Chiambretti a “Chiambretti c’è”. Il successo con la carta stampata ho capito che era arrivato quando sono diventato inviato speciale per “Chi”. Ero molto ambizioso, sono stato divorato in maniera quasi malata dalla voglia di arrivare a tutti i costi.
Cosa ti spingeva?
Ho sempre voluto avere una mia gratificazione, quella che mi era mancata nella vita privata dove invece ero lo sfigato, il nerd, quello che veniva deriso. Volevo a tutti i costi dire: “Io ce l’ho fatta”. Volli, volli, fortissimamente volli.
Com’è il mondo della cronaca rosa?
Io del mondo della cronaca rosa me ne sono sempre servito ma non l’ho mai frequentato. L’ho sempre guardato, cosa che faccio ancora oggi, come quando da piccolo andavo allo zoo a guardare gli animali in cattività. Lo spirito è quello. Non ho mai pensato in vita mia di poter appartenere al mondo dello spettacolo. Non mi interessa proprio.
Nemmeno qualche evento mondano?
Proprio perché lo conosco, lo evito. Non mi troverai mai a una festa, non mi trovi alle cene mondane, dai direttori o dai colleghi. Passo il mio tempo a dire di no. O meglio: passavo. Perché ormai hanno desistito quasi tutti.
Lo scoop di cui vai più orgoglioso?
Gli scoop gratificano sempre. Poi certo, c’è quello che soddisfa il tuo voyeurismo, come quando scoprii di Pavarotti alle Bermuda con la Mantovani mentre era ancora sposato con la moglie. Un altro scoop che mi prese moltissimo, fu quando trovai la figlia di Stalin che viveva come monaca di clausura in un monastero della Bavaria. È stata una notizia che ha fatto il giro del mondo.
Come andò?
Era una madre badessa, ma nessuno conosceva la sua vera identità. L’ho incontrata e poi alla fine lo scoop l’ho portato a casa. Un po’ come quando trovai il compagno di Hemingway che ispirò l’uomo de “Il vecchio e il mare”. Ero all’Avana a divertirmi come facevo spesso in quel periodo e tra un Margarita e un Daiquiri trovai questo vecchio di 102 anni che nonostante l’età ricordava bene la sua vita con Hemingway con cui fece il giro del mondo.
Un personaggio che abbiamo seguito molto e che non meritava l’attenzione ricevuta?
Il mondo dello spettacolo è pieno di meteore. Poi non è importante veramente l’arrivare, perché con la spinta giusta, talento o colpo di fortuna ce la fanno in tanti. È mantenere quella condizione che è difficilissimo.
Con Silvio Berlusconi che rapporto c’era?
È stato un incontro fondamentale della mia vita. Sono quello che sono grazie a me, ma anche grazie a lui. Ci frequentavamo anche quando lui era Presidente del Consiglio e aveva ben altre cose a cui pensare. Però nei momenti di libertà trovava sempre il tempo per una chiacchiera, una cena, un pranzo. È stata una persona molto presente nella mia vita privata e lavorativa.
Come capo com’era?
Molto presente. Quando aveva più tempo mi chiamava per farmi gli auguri prima delle conduzioni del Grande Fratello. E durante la diretta qualche volta telefonava per consigliarmi di cambiare il colore della cravatta. Con lui se n’è andata una parte importante della mia vita.
C’è un aneddoto del vostro rapporto che le piacerebbe ricordare?
Quando mia mamma era ricoverata al San Raffaele, lui la chiamava tutte le sere per chiederle come stava. Poi si faceva passare i medici. E mia mamma si sentiva un gigante ai tempi. Le ha allungato sicuramente la vita di qualche anno. Mi ricordo che quando presentai il mio libro sulla Callas al teatro Manzoni a Milano, lui era in prima fila con Marina e Piersilvio. A un certo punto si accorse che mia madre invece era in seconda fila, così si alzò e la andò a prendere per spostarla in prima fila accanto a sé. Al suo vicino di posto disse: “Lasciami la mamma del mio Alfonsino vicino”. E le tenne la mano per tutta la sera. Questo era lui.
Piersilvio Berlusconi ha dato una svolta in Mediaset dopo la morte del padre: come le giudica?
Ha dato una sua linea personale, molto coraggiosa e netta. Ha dato una sua impronta, spezzando alcune liturgie, mostrando che gli attributi ce li ha. Chapeau.
Come pensa che reagirà il popolo di Mediaset?
Penso che a lungo andare capiranno. Il pubblico non si ciba di pane e trash ogni giorno. Io dall’osservatorio del Grande Fratello ho fatto certamente un programma diverso. Qualcuno l’avrà trovato sotto tono ora che molti angoli sono stati smussati e che si è fatto della normalità la strada maestra. Ma il pubblico ha risposto con un’affezione incredibile. Io stesso dopo le oltre 45 puntate ero sorpreso che i dati di ascolto continuassero a premiarci, nonostante una contro programmazione agguerritissima in Rai. Quindi la nuova linea è stata premiata: perché se le cose non piacciono il pubblico ti molla immediatamente.
Grande Fratello 17: al netto dei dati positivi, in molti parlano di un programma in crisi. Cosa ne pensa?
Sfatiamo questa fake: non è vero che la finale di quest’anno è stata la meno vista della storia del GF. Era quella dell’anno scorso in caso, con 300 mila telespettatori in meno. Ed è pretestuoso dire che non è più il Grande Fratello che macina i numeri di un tempo. Quale sarebbe la tv che fa i numeri di 10 anni fa? Non ci sono più programmi - fatta salva la De Filippi che è un’istituzione - che fanno il 30% di share. Perché l’offerta televisiva è cambiata, oggi è più frammentata. Quello che è stato ottenuto è stato straordinario, lo dicono i dati.
Ci sarai anche per la prossima edizione del GF?
Non ne ho voluto ancora parlare perché sono ancora provato dall’esperienza di quest’anno.
Il tuo coming out a 30 anni, grazie a Paolo: secondo te molti ragazzi oggi rivivono ancora l’esperienza che hai vissuto?
Sicuramente sì. Io ne parlo perché ho maturato un’esperienza, perché ho una solidità diversa rispetto a 30 o 40 anni fa. Vivo anche in un mondo diverso. È facile parlare come Signorini che vive a Milano, che lavora in un giornale e in tv, che gira per il mondo. Nella provincia italiana invece il problema esiste ancora ed è ben radicato purtroppo. È già una conquista che se ne parli, ma l’omosessualità la si guarda come qualcosa di cui è bene discutere ma che fa comunque parte del giardino degli altri, va bene finché non ci riguarda direttamente.
Cosa direbbe oggi ai ragazzi gay che non sanno come rivelarsi al mondo?
Potrei dire di fregarsene, di essere sé stessi. Ma poi uno si trova a fare i conti con la propria di realtà. Anche se devo dire che quando vado nelle scuole, nelle università a tenere delle lezioni, vedo una realtà molto diversa da quella che ho vissuto io. Vedo ragazze che si tengono per mano, dei ragazzi che si baciano alle assemblee. Una libertà che ai miei tempi ce la sognavamo.
Politicamente parlando è un buon momento per gli omosessuali?
No, direi di no. Ma non è una critica a questo Governo, che non ha fatto né più né meno di altri. La politica italiana tende a tenersi lontana da questi discorsi.
Papa Francesco ha fatto qualche apertura al mondo gay: hai paura che dopo di lui possa tornare una Chiesa più conservatrice?
La posizione della Chiesa riguardo l’omosessualità è da sempre di grande apertura. Apertura che però è una chiusura, perché nessuno dice: “Non ti accolgo perché sei omosessuale”. Quello che ti viene detto è: “Io ti accolgo ma non puoi praticare”. Poco c’entra Papa Francesco che non è che abbia fatto chissà che cosa.
E da cattolico praticante cosa ne pensi?
È una situazione che lascia un po’ di amaro in bocca. Ma da cattolico praticante ho deciso di farmela piacere. Però è anche vero che per praticare io devo andare a pentirmi delle opere che ho fatto. E se uno devi pentirsi di amare e di essere se stesso… c’è un vizio di fondo.
Avevi detto di non volerti assolutamente sposare, recentemente hai fatto delle aperture. Ci stai ripensando?
Assolutamente no, sono stato mal interpretato. Il matrimonio è una cosa che mi mette un’ansia terrificante. Non so quello che faccio domani mattina, figurati fra 20 anni.
Ha lanciato Andrea Giambruno (l’ex compagno di Giorgia Meloni) portandolo con te a Kalispera. Cosa ti colpì di lui?
L’intraprendenza e l’intelligenza vivace. Quando lo conobbi era appena laureato, mi prese da parte e mi disse: “Mi piacerebbe lavorare nel dietro le quinte nel mondo del giornalismo o dello spettacolo”. Io in quel momento stavo formando la squadra per Kalispera e lo presi in redazione. Poi lui è una persona molto capace e si è costruito il suo percorso da solo.
Oggi si sentirebbe di dargli un consiglio?
Non penso che abbia bisogno di consigli. È una persona molto decisa che sa quello che vuole e quello che fa. Forse a sbagliato a non ricordare che il suo ruolo di compagno della premier era un lavoro ventiquattrore su ventiquattro, sette su sette. È pure vero però che questa storia è stata un po’ ingigantita dai media. Io che lo conosco posso dire che è una persona che ama molto pavoneggiarsi, non per fare il figo ma perché gli piace giocare. Sono sicuro che Andrea non abbia mai fatto niente di male. Lo conosco troppo bene. Credo che questo lo sappia anche Giorgia Meloni, che però aveva un ruolo da difendere.
Sei passato dai giornali, alla televisione, al teatro: come hai fatto?
Dieci anni fa ho scritto un libro sulla Callas, che venne letto anche dal prof. Umberto Veronesi quando lui era ancora in vita. Mi invitò a una cena - quando ancora alle cene ci andavo - perché voleva parlare insieme della Callas, che anche lui amava molto. Lì conobbi il figlio, Alberto, che fa il direttore d’orchestra. Fu proprio lui a chiamarmi, per propormi di inaugurare il festival pucciniano di Torre del Lago con un’edizione di Turandot di cui mi offriva la regia. È nato tutto così.
Di quanti spettacoli ti sei occupato?
Saranno 6 o 7 anni che firmo le regie e posso dire che è diventata una bella valvola di sfogo per me. Mi consente di fare musica, e io facendo regia faccio musica. Mi fa cambiare prospettiva e girare il mondo. Sono andato in Russia, in Georgia, in Spagna, in Giappone. Il 19 di luglio farò il mio debutto all’Arena di Verona.
Perché dici che facendo regia fai musica?
Quando faccio regia faccio musica, sì. Quando ho debuttato come regista al festival di Torre del Lago, ci dovevamo trovare con il coro dei solisti per le prove. Eravano tutti riuniti quando sono entrato nella sala prove mi sono trovato davanti come un plotone di esecuzione. C’era il gelo totale in sala. Facevano fatica a salutarmi… Ho capito subito che erano prevenuti per via della mia figura pubblica. Gli dissi: “Vi capisco, se fossi al vostro posto sarei anche io un po’ scettico. Però sappiate una cosa: io amo la musica quanto l’amate voi”. Un vecchio corista - che sono sempre quelli che rompono di più - mi disse: “Ma che discorso è il suo. Anche a me piace Belen ma non faccio mica il direttore di Chi”. Mi sono messo a ridere, poi ho visto che in sala c’era un pianoforte, con già aperta una bella partitura del primo atto di Turandot. Mi sono seduto e gli ho detto: “Cominciamo così, poi vediamo”. Quando hanno visto che suonavo il piano e che leggevo la musica sono rimasti di sasso. Così la prova di regia è diventata per me una prova di musica. Tutto parte dalla partitura, attorno a cui si sviluppa tutto il resto.
A proposito di musica: Maria Callas nasceva 100 anni fa, quando è nata questa passione?
Maria Callas disse in un’intervista a Life: “Io non so parlare, ma so cantare”. Quando l’ho sentita cantare per la prima volta mi si è acceso qualcosa dentro che ancora brucia. Per me quella è una voce dell’anima, è un archetipo di umanità. È una cosa che non conosce un perché, che mi emoziona solo a parlarne.
Trovi che sia un personaggio moderno ancora oggi?
Quando ne parlo ai giovani, che mi chiedono chi era la Callas, spiego due o tre cose. E vedo accendersi un interesse in loro quando racconto di questa gigantesca artista che in nome della suo essere donna ha sacrificato l’amore più grande della sua vita che era la musica. Lei questo amore l’ha tradito, per sacrificarlo alla sua femminilità. C’è questa profonda antitesi tra quello che si deve essere e quello che si è. Che è un po’ il conflitto di tutti noi. Che pure lei ha dovuto affrontare, uscendone con le ossa rotte.